3 feb 2021 – di Cecilia Elena Preda, Neuropsichiatra Infantile
Ci troviamo in una pandemia che dura, con alti e bassi, ormai da un anno. Per riflettere sulle conseguenze psichiche di questa situazione, è utile suddividere quello che sta succedendo in due macro momenti: da febbraio 2020 all’estate abbiamo vissuto un fase acuta di emergenza, mentre dall’estate a oggi stiamo sperimentando una situazione cronica a lungo termine.
Quando a febbraio dell’anno scorso ci siamo trovati all’improvviso in una pandemia, abbiamo dovuto affrontare una realtà completamente nuova e sconosciuta che ha colpito tutti, indipendentemente dall’età e dalla situazione personale, scolastica o lavorativa.
L’emergenza ha portato con sé paure e angosce ma ci ha anche fatto sperimentare nuovi equilibri, dall’isolamento sociale alla riscoperta dei legami familiari.
Intorno alla metà dello scorso aprile, ho deciso di intervistare una cinquantina di bambini tra i 5 e i 10 anni, per approfondire il vissuto dei nostri figli in un momento storico così complesso. La richiesta ai bambini era molto semplice: riflettere su quale fosse la cosa più bella e quale la meno bella del periodo di Lockdown.
Gli elementi principali emersi dai colloqui sono stati molto omogenei. Tutti hanno riscoperto la famiglia in una veste mai sperimentata prima e i più piccoli hanno potuto utilizzare il tempo e gli spazi a loro disposizione in maniera più agevole e in linea con le proprie necessità. L’interno della casa, seppur con i limiti logistici e organizzativi più disparati, è stato vissuto come un luogo sicuro e di confine che ha garantito anche sicurezza interna.
Gli elementi legati al gioco inoltre sono stati sostanziali: l’isolamento domestico ha modificato alcuni pattern di stimolazione, e a volte iperstimolazione, esterna, tipici della nostra società odierna. I bambini hanno avuto l’opportunità di riscoprire la dimensione del gioco senza troppe regole e di provare aspetti di noia che li ha portati a utilizzare la fantasia e il gioco simbolico, non mediato da attrezzi o materiali dall’esterno.
Il punto più fragile è stato sicuramente quello riguardante la relazione con i pari e gli amici, particolarmente sentito dai più grandi. Il desiderio di avere uno scambio amicale reale e non mediato dallo schermo per i bambini più grandi è stato un passaggio importante che segna solitamente un passaggio evolutivo di crescita ed emancipazione dalla famiglia.
Nella prima fase di emergenza acuta, i bambini, come gli adulti, hanno manifestato i sintomi più tipici e attesi: paure, fobie, ansie e disturbi del sonno.
La pandemia ha portato con sé anche vissuti adrenalinici sia a livello personale sia a livello di gruppo e società: la condivisione con gli altri è stata particolarmente suggestiva per tutti. Pensiamo agli inni, la musica dai balconi, gli applausi ai medici e le bandiere con gli arcobaleni. Tutto ciò ci ha fatto vivere aspetti di solidarietà e commozione che hanno alleviato i vissuti di angoscia personale.
La seconda fase è stata molto diversa: la situazione non era più di emergenza, anche se comunque di grande urgenza, e ci siamo abituati alle difficoltà quotidiane. È emerso più forte il tema della non programmabilità rispetto alle necessità e ai desideri personali e delle famiglie che affatica sia il singolo che la società.
In questo quadro, l’emergenza sanitaria ha giustamente prevalso sugli aspetti legati alla salute mentale, che diventeranno purtroppo rilevanti più a lungo termine.
All’inizio i sintomi erano legati soprattutto a fobie e ansie, dovute alle difficoltà organizzative e alle profonde modificazioni delle nostre abitudini lavorative e scolastiche. In futuro i sintomi saranno più eterogenei e differenziati, ad esempio: tic, alterazione delle condotte vegetative, disturbi della regolazione e del comportamento, comportamenti regressivi, dipendenza da schermo, ritiro sociale.
La ripresa della scuola in maniera così incostante e l’assenza di un equilibrio scolastico per i bambini più grandi è un elemento di grave fatica e di potenziale rischio futuro.
Questo non riguarda solo gli aspetti didattici che sono importanti ma recuperabili, anche se con maggiore fatica dai bambini con fatiche specifiche (penso alle difficoltà di apprendimento, all’iperattività, alle difficoltà attentive, per le quali i ragazzini sono chiamati a fare già tanta fatica in un contesto normale). Credo che la scuola non sia solo un contenitore didattico, ma più che altro un contenitore prioritariamente educativo.
L’educazione dovrebbe essere la reale priorità, perché l’educazione è la nostra attrezzatura interna con cui possiamo andare nel mondo e sviluppare le competenze sociali, il self control, le capacità deduttive e induttive e la resilienza sociale. La relazione con i pari, non solo in contesto scolastico, ma anche ludico e sportivo, serve a crescere, a confrontarsi con il diverso e a uscire dalla propria comfort zone.
La scuola deve quindi puntare su questo, per crescere bambini e ragazzini più allenati. Se si è meno allenati, come nello sport, si è meno attrezzati e quindi ci si sente più esposti e in pericolo, sperimentando di fatto quella sensazione di perdita di controllo che è la base di molte fatiche psichiche.
In questo senso, a mio parere, quel senso di solidarietà che aveva accomunato e alleviato le fatiche nella prima parte del Lockdown, attualmente si è un po’ perso, in una relazione con l’altro che oggi è definita, complici anche le mascherine e le preoccupazioni di igiene e pulizia, più che giuste e indispensabili, da vissuti di dubbio, paura, fatica nell’avvicinamento, sia concreto che mentale.
La distanza obbligata e la copertura del viso rappresentano elementi di complessità nell’analisi relazionale ed emotiva, soprattutto per i bambini più piccoli dove ancora non è del tutto sviluppata la rappresentazione del mondo e del sé attraverso il canale verbale, ma prevalgono aspetti di corporeità e manipolazione che si sono purtroppo necessariamente perduti.
Gli studi sui neuroni specchio ci dicono quanto essenziale sia l’osservazione del viso dell’altro nella modulazione, interpretazione e condivisione emotiva, in quel meccanismo di “simulazione incarnata”, atavico e magico, che costruisce la nostra abilità e competenza inter-relazionale.
In questo senso non siamo digiuni solo degli abbracci e della corporeità condivisa e perduta, ma anche di uno strumento eccezionale e indispensabile per la sintonizzazione emotiva e per la condivisione empatica del vissuto, tanto utile e affettivamente soddisfacente per l’adulto, quanto indispensabile per il bambino piccolo.
Confidiamo nel progresso scientifico, nella vaccinazione e nella responsabilità individuale che mai come in questo momento è la base della vita di comunità. Anche questo un enorme insegnamento per i nostri piccoli.
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